Non si può descrivere il Siele senza parlare del compianto Francesco Serafini che insieme a Giuseppe Sani
hanno iniziato a parlare nei loro testi delle occupazioni, degli scioperi e della vita sociale dei minatori. Per
questo ci sembra giusto riportare il testo ripreso dalla scheda del parco museo delle miniere per cui a titolo
gratuito gli autori hanno fatto varie interviste.
Il Siele è la prima miniera di mercurio italiana ad entrare in attività. Con la costituzione a Livorno nel 1847
dello “Stabilimento mineralogico Modigliani” inizia la storia moderna dell’industria estrattiva sulla
montagna amiatina che proseguirà lungo un cammino di oltre 130 anni. L’azienda dovrà affrontare nei suoi
primi anni di vita non poche difficoltà legate alla ricerca, alla distillazione del minerale, ai forti investimenti
richiesti rispetto ai magri risultati economici raggiunti. Problemi che porteranno sul finire degli anni
cinquanta all’uscita dalla società dei primi proprietari – Cesare Sadun e Angelo e Salomone Modigliani –, al
fallimento dell’impresa e all’acquisto, nel 1865, dello stabilimento mercurifero del Siele dal tribunale di
Livorno di Emanuele Rosselli, agiato commerciante della città portuale labronica. Con la costituzione nel
1867 della ditta “Angelo Rosselli” e con l’ingresso nella società di Sara Levi Nathan, vedova di un ricco
banchiere londinese e importante figura del Risorgimento italiano per suoi rapporti con Giuseppe Mazzini,
inizia il vero decollo produttivo della miniera favorito anche dalla perizia del nuovo direttore, il francese
Petiton, che succede nel 1870 ai primi responsabili minerari Caillaux e Burci. Nello stabilimento si
producono le prime bombole di mercurio impiegato dalla nascente industria europea nella produzione del
cloro e della soda caustica, nella fabbricazione degli strumenti di precisione (barometri, termometri, etc.),
d’innesco delle armi, nella concia delle pelli, e, più tardi, nella fabbricazione delle vernici antimuffa, dei
prodotti farmaceutici, degli antiparassitari, delle lampade a vapore di mercurio, etc. Il forte sviluppo
produttivo della miniera nonché gli ingenti profitti realizzati dagli azionisti del Siele, attrarranno in
montagna un gran numero d’industriali e finanzieri del vecchio continente: inizia, così, quella “corsa al
mercurio” che vedrà a partire dal 1870 l’apertura sull’Amiata di numerose miniere di cinabro, alcune delle
quali sorgeranno proprio sugli antichi siti esplorati dagli etruschi o coltivati nel settecento dai conti Cesarini
Sforza di Santa Fiora. Dopo lo stabilimento mercurifero del Siele, verranno, infatti, aperte, solo per citare le
attività estrattive più significative, dal tedesco Filippo Schwarzenberg le miniere delle Solforate, del
Cornacchino e del Morone, dai francesi Auber, Lefreve e Magnait quella della Senna, dal polacco Yasinski le
miniere di Casa di Paolo e di Scansano, dai marchesi fiorentini Carlo Ginori Lisci e Giorgio Fossi quella di
Cortevecchia, dalla ditta Menicanti, Soria e soci la miniera De Reto-Montebuono, dal livornese Donegani
quelle di Monte Labro e Bagnore e negli anni venti del novecento, dai Feltrinelli di Milano la miniera
dell’Abetina conosciuta in seguito come Argus. La gran parte di queste attività estrattive non reggeranno
alla crisi finanziaria mondiale del 1929 e verranno progressivamente chiuse. Sempre sul finire del secolo
(1897) viene costituita a Livorno da Vittorio Emanuele Rimbotti e da alcuni finanzieri tedeschi di Friburgo la
“Società Anonima delle Miniere di Mercurio dell’Amiata” che coltiverà un giacimento mercurifero nel
comune di Abbadia San Salvatore, miniera che nei primissimi anni del novecento diverrà la più importante
del Paese e la seconda d’Europa dopo quella spagnola di Almaden. Anche nella miniera Rosselli – Nathan si
realizza negli stessi anni un notevole balzo produttivo: la costruzione dei nuovi forni Cermak – Spirek,
l’introduzione della macchina a vapore, la scoperta di un ricco filone di minerale cinabrifero alle Solforate e
la forte crescita del prezzo del mercurio sui mercati daranno un notevole impulso allo sviluppo dello
stabilimento mercurifero. In conseguenza, aumenta notevolmente la quantità di mercurio distillato ed
anche l’occupazione che supera nei primi anni del novecento 300 unità e cresce ad oltre 1000 dipendenti
sull’intero bacino estrattivo della montagna. Nei periodi di maggiore sviluppo nelle miniere amiatine
verranno occupati circa 2500 operai. Con la costruzione nel 1905 della centrale idroelettrica del Caro e la
messa in funzione di una teleferica per il trasporto del cinabro dalle Solforate ai forni del Siele – minerale
trasportato fino ad allora a dorso di mulo e asino-, la miniera razionalizza il proprio sistema produttivo che
verrà poi completato con la costruzione nel 1914 della galleria Emilia che, attraverso un percorso
sotterraneo di circa due chilometri, collegherà le gallerie di escavazione ai forni di distillazione del Siele. Le
famiglie Rosselli – Nathan, che per oltre 70 anni avevano mantenuto il pieno controllo del Siele, saranno
costrette a disfarsi della miniera a seguito delle leggi razziali fasciste del 1938 che priveranno gli ebrei di
ogni diritto di cittadinanza ivi compreso quello del possesso di beni e proprietà. Escono, cosi, dalle miniere
cinabrifere dell’Amiata due importanti famiglie della storia nazionale nei cui albi genealogici troviamo figure
note dell’antifascismo come Carlo e Nello Rosselli trucidati in Francia nel 1937 dai sicari fascisti della
Cagoule, o come Ernesto Nathan, figlio di Sara, dal 1907 al 1913 illuminato sindaco di Roma. L’azienda
mineraria passerà nel 1939 sotto il totale controllo del gerarca fascista conte Giovanni Armenise, già
azionista di riferimento della Banca Nazionale dell’Agricoltura. L’Amiata, caratterizzata fino all’avvento
dell’industria estrattiva da un’economia silvo-pastorale e da un’agricoltura montana di mera sussistenza,
con le miniere avvia il proprio sviluppo industriale e vede la nascita del movimento operaio: le Società di
Mutuo Soccorso prima, le Leghe di Resistenza e, con i primi anni del novecento il Sindacato dei minatori,
daranno a masse di braccianti, pastori e boscaioli semianalfabeti una matura coscienza di classe che si
esprimerà in epiche lotte in difesa del lavoro, dei salari e della sicurezza in miniera. Nelle gallerie, infatti, si
muore tragicamente per i gas venefici, per lo scoppio delle mine, per le frane, per le cadute nei pozzi. Ma si
muore ancora di più, spegnendosi lentamente, a causa di due terribili malattie che ossificano i polmoni di
chi lavora agli avanzamenti (silicosi) o avvelenano il sangue (idrargirismo) degli addetti ai forni di
distillazione. Patologie del lavoro in miniera che solo nei primi anni del novecento verranno conosciute
grazie agli studi dei medici Giglioli e Zannellini; patologie che solo decenni dopo saranno ammesse tra le
malattie professionali.
Il villaggio minerario del Siele oggi
Il Siele ha mantenuto a lungo i caratteri di un vero e proprio villaggio minerario con il palazzo della
direzione, i manufatti e gli impianti industriali funzionali alla estrazione, lavorazione e distillazione del
cinabro, le abitazioni dei tecnici e dei dirigenti, una piccola scuola primaria, la cappella, lo spaccio,
un’infermeria, le docce e gli altri edifici utili all’attività mineraria e alla vita delle famiglie dei tecnici che lo
hanno abitato. Dell’antico sito ottocentesco rimangono oggi solo alcune significative tracce. Durante i
centotrenta anni della sua storia il villaggio minerario ha conosciuto ininterrotti e pesanti rimaneggiamenti:
si sono abbattuti i vecchi manufatti per far posto a nuove e più funzionali opifici, sono stati demoliti i
castelli dei pozzi che scendevano alle gallerie di escavazione, gli antichi forni Spirek sono stati sostituiti da
impianti di distillazione più moderni e produttivi. Ciò nonostante, è ancora forte l’emozione che dà il Siele:
il vecchio villaggio minerario adagiato sul fondo di una gola cupa, cui fanno corona ombrosi boschi di
querce e cerri, non cessa di sorprendere e colpire la fantasia di chi ha l’occasione di visitarlo. Tra gli edifici
recuperati si staglia l’intrigo inquietante dei tubi e delle torri dei forni Pacific con accanto l’edificio della
frantumazione del cinabro e nei pressi il palazzetto dei neri con i suoi austeri archi di trachite. Di fronte, le
abitazioni dei tecnici e dei dirigenti – balconi protesi dirimpetto la lussureggiante collina -, mostrano gli
occhi sofferenti del lungo abbandono. Ed ancora, meraviglia la breve teoria degli stabili rosso cinabro con la
chiesetta e i locali dei futuri archivi e delle sale multimediali che incontriamo entrando. Su in alto sopra il
cancello d’ingresso domina con la sua austera grazia la villa che ospitò i Rosselli e a sinistra, quasi in fondo
al grande spiazzo, si apre il tunnel della galleria Emilia aperta ai visitatori nel suo primo tratto fino al pozzo
Raffaello, uno dei più profondi con i suoi 350 metri sotto il livello del suolo. All’ospite meno distratto gli
opifici, gli antichi fabbricati, il groviglio metallico dei forni e il cunicolo buio della galleria di carreggio
rimandano alla durezza del pane strappato dai minatori alle viscere della terra.
Francesco Serafini